Ecco la biografia non autorizzata
che nel 1998
svelò tutti i retroscena della
Comunità di Sant’Egidio
di Sandro
Magister
Andrea
Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, è dal 16 novembre
ministro. Non degli affari esteri, come lui stesso aveva sussurrato qua e là di
desiderare, ma pur sempre della cooperazione internazionale, un incarico in rima
con l’epiteto di “ONU di Trastevere” applicato ad arte alla sua comunità. [...]
Di lui esistono ricche e radiose biografie. Ma ce n’è anche una non autorizzata,
mai oggetto di alcuna smentita, la cui lettura è stata sempre proibita ai
seguaci di Sant’Egidio.
Propriamente,
più che una biografia di Riccardi, è una storia della sua comunità, che però con
lui fa tutt’uno. Quando uscì su “L’Espresso” era il 1998. Ma chi la rilegge
oggi, scopre che anche ciò che allora veniva scritto al futuro si è puntualmente
adempiuto:
SANT’EGIDIO
STORY. IL GRANDE BLUFF (Da “L’Espresso” del 9 aprile
1998)
Hanno la loro cittadella
a Roma Trastevere, in piazza Sant’Egidio, in un ex convento di monache
carmelitane con la chiesa. Ma non tengono nessuna targa sul portoncino. Lì a
fianco c’è una caffetteria snob, “Pane amore e fantasia”, con l’insegna tipo
pellicola da cinema e la foto di Gina Lollobrigida, ma non c’è scritto che è
della comunità. Anche la loro messa del sabato sera è da qualche tempo
clandestina. La dicono a porte chiuse dentro la vicina basilica di Santa Maria,
che raggiungono attraverso un labirinto di locali e cortili interni. Perché
ormai sia la basilica, sia quasi tutti gli edifici attigui sono loro dominio,
compresi i due palazzi antichi sulla piazza grande. In uno c’è un mercatino di
cose vecchie e curiose, “La soffitta”. Anche di questo non c’è scritto che è
della comunità.
Sant’Egidio si vede e
non si vede. Si sa che servono minestre calde ai barboni e aiutano i vecchi
rimasti soli. Si sa che in Mozambico hanno messo d’accordo governo e
guerriglieri e che nel Kosovo fanno la spola tra il despota serbo Slobodan
Milosevic e gli albanesi maltrattati. La segretaria di Stato americana Madeleine
Albright, quando all’inizio di marzo è passata da Roma, ha speso più tempo da
loro che dal papa. E uscendo li ha beatificati: “Wonderful people”,
meravigliosi. Sono candidati al Nobel per la pace. Hanno un efficientissimo
servizio di pubbliche relazioni e tutti ne dicono un gran
bene.
TRA OPUS DEI E DALAI
LAMA
Ma per il resto sono
come la leggendaria Opus Dei. Impenetrabili. Nemmeno in Vaticano sanno bene che
cosa fanno quando sono tra loro. Neanche il papa lo sa, nonostante sia loro
amico. Se sapesse che quelli di Sant’Egidio hanno praticamente abolito il
sacramento della confessione sostituendolo con i mea culpa pubblici nelle
assemblee di gruppo, li redarguirebbe severo. Se conoscesse le loro stranezze in
materia di matrimonio e procreazione, sobbalzerebbe sulla cattedra. Se sapesse
che nelle loro messe l’omelia la tiene sempre Andrea Riccardi, il fondatore e
capo, che prete non è e quindi non dovrebbe predicare (divieto assoluto ribadito
di fresco da un’istruzione vaticana), li richiamerebbe subito
all’obbedienza.
Questioni interne di
Chiesa? Sì e no. Perché quella che oggi è detta “l’Onu di Trastevere” non è
un’organizzazione laica tipo “Médecins sans frontières”, ma è nata come comunità
cattolica integrale. E tuttora si presenta così: come cittadella di Dio in un
mondo invaso dai barbari. È in forza di questa identità e della benedizione
papale che Sant’Egidio si offre ´urbi et orbi´ come peacemaker sui fronti di
guerra. Oltre che come ponte di dialogo tra le religioni.
Sono stati quelli di Sant’Egidio a organizzare il meeting interreligioso del 1986 ad Assisi, con il papa in preghiera fianco a fianco col Dalai Lama, con metropoliti ortodossi, pastori protestanti, monaci buddisti, rabbini ebrei, muftì musulmani, guru e sciamani d’ogni credo.
Sono stati quelli di Sant’Egidio a organizzare il meeting interreligioso del 1986 ad Assisi, con il papa in preghiera fianco a fianco col Dalai Lama, con metropoliti ortodossi, pastori protestanti, monaci buddisti, rabbini ebrei, muftì musulmani, guru e sciamani d’ogni credo.
Da allora, Sant’Egidio
replica il modello di Assisi ogni anno: l’ultima volta a Padova e Venezia, altre
volte a Roma, Firenze, Milano, Bari, Varsavia, Bruxelles, Malta, Gerusalemme.
Con un crescendo di coreografie spettacolari. Con cerimonie ritrasmesse in
mondovisione. Con un roteare di ospiti insigni, chiamati dai cinque continenti,
spesati, coccolati. Minimo mezzo milione di dollari per meeting, coperti da
sovvenzioni governative e private.
Con questi precedenti,
Sant’Egidio non avrà rivali per il prossimo Giubileo. Sua sarà la regia
dell’Assisi bis, questa volta di nuovo col papa, già annunciata dal
Vaticano.
IN PRINCIPIO FU
CL
Eppure, nonostante
queste credenziali e le sue suggestive liturgie, il profilo cattolico della
comunità di Sant’Egidio resta sfuggente. I suoi percorsi tortuosi. La sua data
di nascita ufficiale è il 7 febbraio 1968. Ma a quella data non succede proprio
niente di nuovo. I futuri membri di Sant’Egidio fanno semplicemente parte di un
raggio, di una cellula di Gs nel liceo Virgilio di Roma. Gs è la sigla di
Gioventù Studentesca, l’organizzazione fondata da don Luigi Giussani che più
tardi, passata la bufera del Sessantotto, prenderà il nome di Comunione e
Liberazione.
Riccardi vi si era
avvicinato negli anni di ginnasio, a Rimini. Dopo di che, tornato a Roma, aveva
legato con i ´giessini´ del Virgilio, del Dante, del Mamiani. Tra quei compagni
di liceo c’è già il nocciolo duro di Sant’Egidio d’oggi. Ma con loro ci sono
anche Rocco Buttiglione e la sua futura moglie Maria Pia Corbò, che rimarranno
con don Giussani. Se il gruppone si disfà, tre, quattro anni dopo, è perché se
ne va via il prete che l’aveva tenuto assieme, Luigi Iannaccone. È solo a quel
punto, inizio 1972, che Riccardi e i suoi si mettono in proprio. Con astio nei
confronti dei fratelli separati di Cl, che infatti spariranno per sempre, anche
in memoria, dalle storie autorizzate di Sant’Egidio.
MONACI DEL NUOVO
MILLENNIO
Manca ancora una sede. E
per un poco Riccardi e compagni, tutti di famiglia bene, meditano di traslocare
in baracche di periferia. Ma poi per i poveri scelgono solo di lavorare, senza
conviverci. Nel settembre del 1973 fissano finalmente il loro quartier generale
a Sant’Egidio, a Roma Trastevere. Sparite le ultime monache, l’edificio era
rimasto vuoto. È di proprietà del ministero degli Interni, che lo cede a loro in
cambio d’un affitto di poche lire. Chiavi in mano compreso il restauro, eseguito
prontamente a spese del ministero.
Segue la fase monastica.
Con una spruzzata d’orientalismo. In vacanza, quelli di Sant’Egidio vanno in
Belgio, a Chevetogne, un monastero che celebra raffinate liturgie bizantine, e
se ne innamorano. Di ritorno a Roma, arricchiscono le loro liturgie con tocchi
orientali e alla loro vita comune danno un’impronta monastica. Anche per via
della giovane età, nessuno di loro è sposato. E allora s’immaginano “celibi per
il Regno dei cieli” e “monaci nel deserto della città”.
Danno ai loro capi i
nomi di priore e priora, con i rispettivi vice. Abitano in piccoli gruppi divisi
per sesso. Vestono tutti in modo austero, riconoscibile: gonne ampie e lunghe,
maglioni abbondanti e colori castigati le donne; giaccone blu scuro i maschi;
borsa di pelle a tracolla per tutti, modello Tolfa. Le giornate sono all’insegna
dell’“ora et labora”, dove il “labora” sono il pasto ai poveri, le pulizie ai
vecchi, il doposcuola ai monelli di periferia.
Ma anche la fase
monastica si spegne presto. Nell’estate del 1978, in un ritiro
collettivo nelle Marche, nell’eremo di Macereto, un po’ tutti svuotano il sacco.
E confessano di condurre tra loro una vita sessuale sin troppo movimentata. Da
lì in poi cade il silenzio sul “nuovo monachesimo” e prendono il via i primi
matrimoni. Resta l’obbedienza assoluta a quello che era di fatto l’abate
indiscusso, Riccardi.
Il quale, intanto, s’è
laureato in legge, ma si è subito dopo tuffato, da autodidatta, negli studi di
storia, in particolare di storia della Chiesa, fino ad aggiudicarsi rapidamente
una cattedra in università. Come per incanto, si danno agli studi di storia
anche gli altri membri importanti della comunità, maschi. Ma quello che li
distingue è che la storia non vogliono solo studiarla, ma farla. Specie la
storia presente della Chiesa. Il 1978 è l’anno dei tre papi: muore Paolo VI e
dopo l’interregno di papa Albino Luciani sale al trono Giovanni Paolo II. Nei
due preconclavi, specie nel secondo, Sant’Egidio è tutto un via vai di cardinali
d’ogni continente, di conciliaboli, di manovre elettorali.
La comunità fa campagna
per il cardinale vicario di Roma, Ugo Poletti. Ma il conclave li delude. A
vincere è il polacco Karol Wojtyla, per loro uno sconosciuto. Bastano poche
settimane per ribaltare la sconfitta. Quelli di Sant’Egidio studiano a puntino
la mappa della prima uscita del nuovo papa, alla parrocchia romana della
Garbatella. Sul tragitto c’è una scuola materna, con un’aula che dà proprio
sulla strada. Per una settimana occupano quell’aula e insegnano ai bambini canti
in polacco. Li tengono lì dentro a cantare anche la domenica, col papa che
arriva. Finché il papa passa, sente, si ferma, entra, vuol sapere. L’idillio tra
Giovanni Paolo II e Sant’Egidio sboccia così. L’innamoramento è l’estate dopo a
Castelgandolfo, una sera di luglio, in giardino, con le lucciole. Cantano e
ballano con lui. Fanno ´serpentone´ tra le aiuole. Non si lasceranno
più.
ALLA CONQUISTA DELLA
CHIESA
Gli anni Ottanta sono la
fase della conquista della Chiesa, posizione dopo posizione, fino ai più alti
gradi. Il riconoscimento canonico Sant’Egidio l’ottiene nel 1986. Ma più
importanti sono i legami diretti stabiliti con alcuni personaggi chiave del
Vaticano.
Tre di questi sono
tuttora i più grossi sostenitori della comunità. Uno è il segretario personale
di Giovanni Paolo II, Stanislaw Dziwisz, onnipotente factotum. Un altro è il
cardinale Roger Etchegaray, ambasciatore volante del papa sui fronti caldi del
globo. Il terzo è il cardinale Achille Silvestrini, curiale di prima grandezza.
Anche le parentele pesano. Una nipote di Silvestrini, Angela, è dentro la
comunità. Mentre altri due membri di spicco di Sant’Egidio, don Matteo Zuppi e
Francesco Dante, sono a loro volta nipoti di due porporati defunti:
rispettivamente dei cardinali Carlo Confalonieri ed Enrico Dante. Quanto a
Riccardi, il suo albero di famiglia è ancor più dotato: ha come zio non un
cardinale ma un beato “che fu maestro del futuro cardinale Ildefonso Schuster”,
un monaco di San Paolo fuori le Mura di nome Placido, elevato agli altari nel
1954. Ed è già lui stesso un santo in terra, per i suoi
fan.
MARTINI
FOLGORATO
Altro cardinale
protettore di Sant’Egidio è Carlo Maria Martini, gesuita e arcivescovo di
Milano. Martini lo dicono addirittura loro membro onorario, perché nel 1975,
quando era a Roma come rettore del Pontificio istituto biblico, li incontrò, ne
restò folgorato e per quattro anni fece la sua parte nella comunità: accudiva a
un vecchietto di Trastevere e andava a dir messa in un locale della borgata
Alessandrina. Ad accompagnare Martini passo passo era stata incaricata una
giovane della comunità, Gina Schilirò. Un’altra, Maura De Bernart, aveva a sua
volta conquistato alla causa pochi anni prima un sacerdote, Vincenzo Paglia, che
oggi è assistente ecclesiastico ufficiale di Sant’Egidio e aspirante vescovo.
Sfortunatamente, sia Schilirò che De Bernart hanno poi avuto storie tormentate.
La prima è uscita dalla comunità e poi rientrata con la cenere sul capo. La
seconda, che all’inizio era leader di spicco, finì presto retrocessa con
l’etichetta di donna traviata. “La nostra Maria Maddalena”, la definivano i suoi
censori.
IN GUERRA PER
LA
PACE
C’è forte contrasto, in
Sant’Egidio, tra il proscenio e il retroscena, tra le attività “ad extra” e la
comunità “ad intra”. Prendiamo le iniziative di pace, quelle degli anni Novanta,
la fase geopolitica della storia della comunità. Sulla ribalta del mondo,
Sant’Egidio si batte indiscutibilmente per la pace e la democrazia. Se una
critica le viene fatta, è che sceglie i suoi teatri con fin troppa cura di sé.
Sì in Burundi, in Algeria, in Sudan, anche a costo di contrariare le Chiese del
luogo. No a Timor Est e nel Chiapas. Questione di concorrenza. Il Nobel per la
pace assegnato nel 1996 al vescovo di Timor, Carlos Filipe Ximenes Belo, è stato
per Sant’Egidio una doccia gelata. Quanto al Chiapas, tra i candidati rivali al
Nobel c’è anche lì un vescovo star, quello di San Cristóbal de las Casas, Samuel
Ruiz García.
Ma la democrazia vale
per quelli di fuori. Dentro la comunità non ce n’è ombra. “Perché anche
la Chiesa
dev’essere così, non democratica”, teorizza con i suoi discepoli Riccardi. La
gerarchia interna è rigidissima e in trent’anni di vita della comunità lui solo
è sempre stato al comando. Ma rigide sono anche le divisioni per sesso: ai
maschi la diplomazia, la geopolitica, il pulpito, la cattedra, l’altare; alle
femmine il sociale, le mense, gli anziani, i bambini. E così le divisioni per
generazione e per classe.
La struttura della
comunità di Sant’Egidio ha al culmine il gruppo dei fondatori, oggi tra i 40 e i
50 anni. Sono 120 circa, ma è come se fossero i dodici apostoli: un ´unicum´ cui
nessuno può aggiungersi. Poi, in subordine, viene la seconda generazione. Che è
a sua volta divisa in due rami: da una parte la Pentecoste , i borghesi,
quelli che hanno fatto gli studi; dall’altra la Resurrezione , il
popolino, quelli di borgata. Il reclutamento dei giovanissimi è anch’esso
separato: per la
Pentecoste nei licei, per la Resurrezione nelle
scuole professionali di periferia.
LE SACRE
GERARCHIE
La messa del sabato
sera, quella del top della comunità, è da sempre una fotografia perfetta delle
gerarchie interne. Sull’altare c´è il gruppo dei fondatori, da una parte le
donne, dall’altra i maschi, ciascuno al suo posto prefissato. Nella navata ci
sono una rappresentanza scelta della Pentecoste più qualche elemento della
Resurrezione e gli ospiti di riguardo. Riccardi è alla regia: non solo tiene la
predica, ma comanda anche le luci da una piccola consolle. E chi nella comunità
cade in disgrazia perde sia il suo ruolo nella messa che il suo posto in chiesa:
Claudio Cottatellucci, uno dei capi della prima ora, che per anni aveva avuto
l’onore di leggere dall’ambone l’Antico Testamento, si ritrovò di punto in
bianco cacciato giù nella navata. La processione d’uscita al termine della messa
è anch’essa un rito gerarchico. Tornati i preti in sacrestia, il primo ad
alzarsi è Riccardi, seguito in fila indiana dagli altri maschi dell’altare, in
ordine d’autorità. Poi ecco Cristina Marazzi, la numero uno delle donne, con le
altre dietro in fila. Infine il rompete le righe per quelli della
navata.
QUINTA COLONNA AL
“CORRIERE DELLA SERA”
Il terremoto più grosso,
al vertice di Sant’Egidio, risale a sei anni fa. Riccardi annunciò che avrebbe
lasciato a un altro la presidenza per dedicarsi con più libertà alla cura
spirituale della comunità. Ma quando si arrivò al voto nel comitato centrale, la
sua indicazione non cadde su Andrea Bartoli, che da sempre era stato il numero
due e in gioventù era stato di Riccardi l’amico intimo, ma su Alessandro
Zuccari.
Di norma l’indicazione
di Riccardi è legge. Non si discute, si esegue. Ma quella volta accadde
l’inaudito: l’unanimità fu infranta. Zuccari fu eletto, ma anche Bartoli ebbe
dei voti. E i suoi sostenitori uscirono allo scoperto: Agostino Giovagnoli,
l’intellettuale fine del gruppo, quello a cui spettava tenere le omelie ogni
volta che Riccardi era assente; sua moglie Milena, numero due delle donne; Paola
Piscitelli, futura compagna dello stesso Bartoli; Roberto Zuccolini, giornalista
al “Corriere della Sera”, il primo quotidiano italiano.
Questa fronda non
chiedeva maggior democrazia dentro la comunità: perché quanto a dispotismo,
Bartoli aveva fama di terribile maestro dei novizi. Il dissenso era di
strategia. Bartoli e i suoi contestavano un chiodo fisso di Riccardi: l’idea che
la comunità di Sant’Egidio dovesse restare marcatamente papalina e romana, anche
nelle sue filiali estere d’Europa, d’Africa, d’Asia e d’America. Volevano più
autonomia per le periferie della comunità. Mentre Riccardi era ed è un
accentratore estremo.
La guerra tra i due
Andrea durò per tutto il 1992, con i fautori di Riccardi che tenevano i loro
conciliaboli al Caffè Settimiano, a Trastevere. E alla fine il gruppo
antipartito fu sgominato. Bartoli fu spedito in esilio a New York, dove è
tuttora. Suo fratello, Marco, fu cacciato dalla filiale di Napoli, di cui era il
primo responsabile. Altre filiali a Genova e in Germania, che erano pro Bartoli,
furono commissariate. A Giovagnoli furono tolti il pulpito e la cura delle
relazioni con l’Asia. Zuccolini invece lo recuperarono: al “Corriere della Sera”
era troppo prezioso e il partito di Riccardi ci teneva ad averlo dalla
sua.
Salirono così di grado,
assieme a Zuccari, solo i fedelissimi del fondatore. Sono gli stessi che oggi
compongono il gruppo dirigente, ciascuno con le sue mansioni: Marco Impagliazzo,
Mario Giro e don Vittorio Ianari si occupano di Islam e mondo arabo,
dall’Algeria al Sudan; Roberto Morozzo Della Rocca e don Paglia dei Balcani; don
Marco Gnavi e Adriano Roccucci dell’Oriente ortodosso, dalla Serbia alla Russia;
don Zuppi dell’Africa; Valeria Martano, moglie di Zuccolini, di Istanbul e
dell’Asia; don Ambrogio Spreafico, che è anche diventato rettore della
Pontificia Università Urbaniana, degli ebrei; Alberto Quattrucci e Claudio Betti
degli annuali meeting interreligiosi sul modello del papa ad Assisi; Gianni
La Bella di
sponsor e sovvenzioni; Cristina Marazzi, intramontabile numero uno delle donne,
di assistenza; Mario Marazziti, suo marito, di pubbliche
relazioni.
E i preti? Sant’Egidio
ne ha oggi una dozzina. Tolti Paglia e Spreafico, venuti da fuori, gli altri
sono cresciuti tutti in casa, senza passare per i seminari diocesani. A decidere
chi deve diventare prete è la comunità, ossia Riccardi. E a consacrarli basta un
vescovo amico, nell’attesa che vescovo lo diventi uno di loro. Paglia è il
candidato. Fermo al palo da anni. Se in Vaticano esitano a dare il via libera
alla sua ordinazione è perché c’è finora un solo, troppo discusso precedente di
comunità con un suo vescovo speciale: l’Opus Dei. Il timore è che Sant’Egidio
diventi un’altra Chiesa nella Chiesa.
Ma la spunteranno.
Quelli di Sant’Egidio sono pochi di numero. Faticano a reclutare nuovi seguaci e
subiscono molti abbandoni. Ma si definiscono “la formica capace di imprese
grandi con piccoli mezzi”. Sono una lobby potente. Condizioneranno il conclave
che eleggerà il prossimo papa. Nessun magnate di Chiesa li vuole avere nemici.
Riccardi lo dice spesso ai suoi: “Dobbiamo apparire più di quello che siamo. È
il nostro miracolo. Il grande bluff”.
Fonte: Settimo Cielo, 16 novembre
2011
Foto:http://www.zipnews.it/2011/12/il-ministro-e-i-rom-di-torino-foto/
Foto:http://www.zipnews.it/2011/12/il-ministro-e-i-rom-di-torino-foto/
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